06:39 am
04 November 2024

Il futuro non è la prossima settimana.

Il futuro non è la prossima settimana.

 

Se nel lungo periodo saremo tutti morti, nel breve invece siamo tutti invalidi resi ciechi da irrefrenabile impazienza. Osservando il susseguirsi di dichiarazioni sull’andamento della economia europea, sembra quasi di guardare un film di Charlie Chaplin: ognuno degli attori va in giro meccanicamente e senza la minima idea di ciò che fa.

Ci sono poi i commenti dei “comuni mortali”, di chi legge il giornale e ascolta il telegiornale  e comprende, forse, un terzo di ciò che succede. Ma si sa, “gli italiani sono tutti allenatori” a tavola.

Allora, lungi, dal volerci assurgere a demiurgo della economia europea o, peggio, di quella italiana, ci avventuriamo nella lettura di qualche scritto di “addetti ai lavori” e cerchiamo di capire cosa succede se il futuro è adesso, quando parliamo di investimenti e innovazione.

Partiamo da un lavoro del 2011 a firma di Andrew Haldane, chief economist della Banca di Inghilterra, e del suo collega Richard Davies. Da una robusta analisi su dati panel dal 1980 al 2009, i due economisti dimostrano come in ambito finanziario la visione a breve termine sia statisticamente ed economicamente significativa. Nel periodo in esame, infatti, nel Regno Unito e negli USA, i cash-flow a cinque anni sono scontati a tassi più appropriati per quelli a otto anni; i cash-flow a dieci anni vengono valutati come se fossero a 16 e quelli a più di 30 anni sono scarsamente valutati.  Il lungo è breve. Le scelte finanziarie, come altre scelte di vita, vengono sintonizzate su lunghezze d’onda più corte. Gli autori utilizzano una metodologia basata sul modello tradizionale di analisi costi-benefici e “equity pricing”. La presenza di logica di breve termine significherebbe che gli agenti scontano eccessivamente i  flussi di cassa futuri. Gli investimenti non vengono intrapresi, anche se il tasso di sconto (dopo aver incluso il premio di rischio) suggerisce l’opportunità razionale di investire in una determinata azienda.

Tralasciando di addentrarci nelle cause di questo comportamento, ci preme sottolineare quanto i due economisti concludono: anche piccoli eccessi di attualizzazione possono avere grandi effetti cumulativi. In questo modo, sia gli investimenti che la crescita si smorzano.

Questa logica del venture capital è alla base dell’operazione di smantellamento del mito che lo vede foriero di imprese innovative, nonché della sua capacità di generare crescita, portata avanti dalla economista Mariana Mazzucato nel suo bel libro “Lo Stato innovatore”. In realtà, anche altri economisti sottolineano come l’orizzonte del venture capital sia quello della “uscita anticipata” dall’investimento, a causa degli onorari di gestione e delle gratifiche incassate in caso di rendimenti elevati. Quindi la maggior parte dei finanziamenti, soprattutto in settori di ricerca e sviluppo, si concentra su progetti che prevedono di arrivare alla fase di commercializzazione della “scoperta” entro i tre, cinque anni (Gosh e Nanda, 2010). Tuttavia, in alcuni settori come ad esempio quello biotecnologico o energetico, l’arco temporale richiesto dal processo di esplorazione scientifica è più ampio, oltre a richiedere la disponibilità ad accettare un insuccesso.

Esattamente il contrario di quanto avvenuto progressivamente nelle ultime decadi, stando a Lazonick e Mazzucato (2013), che dimostrano come la cosidetta “finanziarizzazione” della economia sia dovuta a un eccesso di speculazione e in particolar modo a due fattori. Il primo riguarda la tendenza del settore finanziario a cedere prestiti a se stesso, piuttosto che alla “economia reale”.[1]Il secondo concerne una eccessiva concentrazione di finanziamenti ad opera delle grandi corporation in attività altamente profittevoli nel breve periodo –  acquisizioni e fusioni (M&A) – contemporaneamente ad un progressivo disimpegno in attività redditizie sul lungo periodo come ricerca e sviluppo (R&D).

In questo modo, la finanza non è né lo “schumpteriano” eforo del capitalismo, né il settore privato gioca il suo ruolo di investitore a la Keynes. In sostanza, banche e fondi di venture capital sono diventati “risk-averse”.  Un recente studio del Mit (2013) fa notare come il problema reale nel campo della innovazione sia la mancanza di un settore privato interessato a investire prepotentemente in ricerca e sviluppo. Al contrario di quanto accadeva negli anni ’60 all’interno di aziende come Xerox, Bell e altre, oggi esiste un vuoto spaventoso di laboratori di ricerca all’interno delle grandi corporations.

Questo accade in virtù della miopia da “breve termine” del settore e della visione del venture capital focalizzata sulla “uscita” entro tre anni, solitamente attraverso una offerta pubblica iniziale (IPO) (Lazonick and Tulum, 2011). Tuttavia, questo modo di agire, questo tipo di finanza può servire a sviluppare quelli che Mazzucato chiama “gadgets”, ovvero prodotti che si basano sull’assemblaggio di tecnologia già esistente (famoso è, nel libro, l’esempio dell’iPhone), ma certamente non serve a generare le “onde lunghe” del futuro.

Le ricette per cambiare questo modo di agire vanno da una maggiore trasparenza, una governance più forte, cambiamenti negli incentivi e nelle remunerazioni degli executive manager (Mazzucato fa notare come le stock option siano uno degli strumenti più adatti a questo tipo di finanza dall’occhio corto), fino a tasse e sussidi, laddove necessario.

Non è una questione di quantità degli investimenti, secondo Mazzucato, quanto la qualità di questi. In tempi di quantitative easing da parte della BCE e di “tesoretto” da spendere per il governo italiano, riteniamo che una strategia mirata da navigante con la bussola ben orientata sia essenziale. La Germania ha lavorato bene e predicato male. Dovremmo guardare a cosa ha fatto, più che soffermarci su cosa dice. Investire in settori strategici, che definiscono l’orizzonte del futuro piuttosto che quello dell’uscio di casa.

E’ difficile vincere il futuro, se pensiamo esso sia la prossima settimana.

Serena Fiona Taurino

[1] Per “economia reale”, si intende crescita produttiva sia nel settore manifatturiero che dei servizi, e creazione di nuovi posti di lavoro.

Rispondi