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19 April 2024

Musica e metafisica: Talk Talk – Laughing Stock (1991)

Musica e metafisica: Talk Talk – Laughing Stock (1991)

Va bene, tre anni prima c’era stato Spirit of Eden. C’era stato l’effetto sorpresa che quel disco di indubbia qualità ha suscitato in tutti coloro che dei Talk Talk avevano preventivamente ristretto le possibilità creative ad un synth-pop di marca squisitamente eighties. Si potrebbe ricorrere alla massima eraclitea (“lo stupido ama stupirsi“) per descrivere concisamente quel fenomeno piuttosto frequente per cui ciò che ci sorprende, in fondo non fa che spezzare dei limiti che soltanto noi stessi avevamo posto all’esperienza. Ma questo per la storia non conta, e Spirit of Eden è sicuramente un disco di notevole importanza “storica”.

Tuttavia è in questo Laughing Stock che la storia diviene metafisica. La musica perde ogni contatto con la terra e la forma canzone, ed impara a sfruttare quell’incomparabile dono di Dio che è il silenzio. E’ tra le pieghe in cui si increspa l’iniziale “Myrrmah” che emerge ciò che essa non riesce a esprimere con la raffinata debolezza della sua struttura, prima di scivolare definitivamente in un deliquio insieme malinconico e austero, che sembra custodire una saggezza misteriosa. I residui soul e le raffinate screziature nere che si affacciavano occasionalmente nelle aperture epiche Spirit of Eden, qui si sublimano e restano avvertibili solo nel canto di Hollis, che riesce nell’impossibile miracolo di camminare per tutto in equilibrio tra il sofferente e il lambiccato, senza cadere nella melma del patetico. Ma mai come in questo disco il genere musicale si fa puro linguaggio per produrre un senso del tutto autonomo da esso, come nel jazz isterico della batteria in “Ascension Day”, o nell’ossimorico pop di quasi dieci minuti di “After the Blues”, con il suo “ritornello” (in realtà una ricaduta ciclica) dalle forti inflessioni soul.

talk talk gruppo

Nelle sei tracce di Laughing Stock viene portato a compimento il tentativo di sfiorare l’eternità nell’instabilità del tempo. I brani scorrono in una direzione, ma tutto sembra simultaneo, icasticamente scolpito nel granito. Neanche il magnifico lavoro di chitarre di Hollis, che spazia dall’arpeggio più delicato a sventagliate quasi shoe-gaze, riesce a distrarci dallo sfondo di rigorosa immobilità dalla quale esse appaiono. Veicolo particolarmente significativo di questa trascendenza è “New Grass”. Per nove minuti e quaranta di sapiente nostalgia, in cui la batteria ipnotica, le esilissime chitarre  elettriche, le tastiere lontane, gli accordi radi e stanchi di piano, tessono uno struggente arabesco di struggente tristezza. L’intensità emotiva di questo brano non ha nulla a che fare con le passioni degli uomini. Si tratta della malinconia descritta a partire da una prospettiva divina. E’ in questo stagliarsi fisso su di uno sfondo siderale a salvare nell’eternità i fenomeni mutevoli nel tempo. Anche le liriche, che in questo brano parla della voce di Dio che, manifestandosi nella natura, spezza ogni illusione, si fanno frammentarie e porose, lasciandovi traguardare una luce soprannaturale cui si può solo alludere. E’ solo a partire da questo sguardo duplice sulla natura, insieme esposta alla finitezza e risucchiata nel seno di Dio, che Hollis può cantare: “someday Christendom may come”.

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